L’obbligatorietà dell’adozione della modellazione informativa, finalizzata alla gestione informativa, per le stazioni appaltanti e per le amministrazioni concedenti, ha sancito con il DM 560/2017 molte aspettative e altrettanti timori.
Al contempo, tuttavia, la conoscenza e la comprensione dei contenuti relativi al decreto ministeriale che ne ha determinato la cogenza appaiono scarse e, di conseguenza, le prime soglie dei vincoli sono state, almeno inizialmente, non di rado disattese.
Quel che è peggio, però, è che gli obblighi siano spesso stati adempiuti, quando lo sono stati, anche per via volontaria, in termini meramente formali e, in qualche modo, con una certa ironia, «documentali».
Ciò è chiaramente accaduto in quanto si persevera nell’intendere le «tecnologie digitali» quali meri strumenti per gestire processi analogici, mentre, al contrario, la loro natura è in-audita ed esse tendono a rendere «oggetti» i soggetti che vi si cimentano inconsapevolmente: come ampiamente è oggi dimostrato dall’uso dei social media, ai quali si cominciano ad associare dispositivi del real world come gli assistenti vocali.
Non ci si può, dunque, attendere molto da capitolati informativi generici, da ambienti di condivisione di documenti impiegati riduttivamente, da modelli informativi quantomeno privi della componente alfanumerica.
Questi sono, nel migliore dei casi, gli esiti probabili per una amministrazione pubblica chiamata ad adempiere a richieste che, nella realtà, presupporrebbero una maturità ben diversa, nei metodi e nei processi, attinente non solo all’Information Management, bensì anche al Project Management: amministrazione pubblica che spesso superficialmente, si rivolge a entità consulenziali che propongono a essa soluzioni immediate, rabberciate, semplificate, in nome del famigerato Bim, il nuovo prefisso adoperato per attrarre commercialmente gli attori.
In altre parole, le amministrazioni pubbliche, «legittimate» da un quadro intrinsecamente critico per quanto riguarda la loro condizione generale, non farebbero così che aggravare le proprie diseconomie e le proprie criticità.
Col pretesto di rimandare a un seguito non meglio determinato temporalmente, stazioni appaltanti e amministrazioni concedenti aggirerebbero così, «a buon mercato» l’ostacolo, eluderebbero processi che mirano, al contrario, alla essenza delle logiche strutturali dell’organizzazione.
È palese, è assolutamente immaginabile, perciò, come è stato affermato da un autorevole osservatore, che il settore possa rimanere a lungo nella terra di nessuno di una transizione digitale che raccolga il peggior retaggio dal passato e dal futuro.
Come, allora, transitare alla riva opposta, evitando di restare irretiti e impantanati in mezzo al guado?
E, inoltre, è davvero possibile che ciò avvenga senza modificare gli assetti attuali della Domanda Pubblica, senza, ad esempio, far fronte ai processi aggregativi e ai ricambi generazionali?
Si è, infatti, ben coscienti che il più temibile avversario della trasformazione digitale non sia offerto da una aperta opposizione, ma da una silente inerzia, confidente nello stato di «impossibilità» evolutiva e desiderosa di riduzionismi, una attitudine che porta con sé un principio deresponsabilizzante del differimento che tende a trasferire alla dirigenza apicale che seguirà la questione.
Ciò, peraltro, avviene, come detto, in un frangente in cui le attenzioni della pubblicistica e dell’offerta consulenziale si concentrano ossessivamente sulle stazioni appaltanti e sulle amministrazioni concedenti, senza, però, presentare spesso una adeguata visione d’insieme sulle unità organizzative coinvolte nei procedimenti relativi ai contratti pubblici, senza contestualizzare il tema all’interno della complessiva digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche, senza traguardare i delicati endoprocedimenti che precedono e che accompagnano le fasi di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici.
È opportuno, del resto, ricordare che il decreto ministeriale è rimasto orfano dell’atteso DPCM inerente alla qualificazione delle stazioni appaltanti.
Bisogna, pertanto, che le amministrazioni pubbliche ripartano dalla consapevolezza che, in definitiva, i processi di digitalizzazione, da quelli più direttamente concernenti il singolo cittadino (ivi incluse le procedure di rilascio o di diniego dei titoli abilitativi) a quelli più complessi (come per l’affidamento e per l’esecuzione di un contratto pubblico) siano il portato di una radicale trasformazione della natura dell’organizzazione.
Non ha, allora, granché senso adottare le prescrizioni formulate dal DM 560/2017, tanto relativamente all’intera struttura organizzativa quanto al singolo procedimento, in assenza di una rivisitazione degli assetti e delle logiche digitali, certo, ma anche ambientali, circolari e sostenibili.
È indubitabile che applicare il decreto ministeriale in maniera isolata non sia che una, talora persino dannosa, superfetazione, che poco o nulla è in grado di facilitare una evoluzione, ad esempio,
del rapporto tra le controparti.
Per questa stessa ragione, per il fatto, cioè, che la sfida digitale sia culturale ancor prima che tecnologica, sistemica anziché puntuale, ad esempio, i cosiddetti contratti collaborativi e relazionali siano stati accostati per il metodo e per la finalità al «BIM», certamente non in quanto contengano in se medesimi elementi tecnologici.
Così come l’uso del Web ha mutato considerevolmente le relazioni sociali, dilatandole nello spazio e nel tempo, ma anche assoggettando a esso, in termini di «sorveglianza», i propri utenti, in termini comportamentali, è palese che condurre l’intera Domanda Pubblica nell’ecosistema digitale senza istruttoria e mediazione comporti una serie enorme di controindicazioni, come è dimostrato da allegre idee di far sì che tutti gli operatori, pubblici e privati, possano «giocare» su piattaforme digitali in assenza di una seria riflessione sulle politiche, sulle strategie, ma pure sulla natura, sulla riservatezza, sulla detenzione e, sopra a tutto, sull’uso del dato.
Va da sé che serva una «agenzia» per l’acculturamento e per il supporto delle stazioni appaltanti e delle amministrazioni concedenti che, ovviamente, non dimentichi che esistono l’AgID, il Commissario Straordinario, il Codice dell’Amministrazione Digitale, il piano pluriennale per l’Italia Digitale, i responsabili della transizione digitale e dei sistemi informativi negli enti.
Serve, in primo luogo, una politica industriale che, all’insegna di rinnovate accezioni del rapporto, che si dice sempre dover essere «collaborativo» e «partenariale» tra i soggetti che operano nelle sfere del Pubblico e del Privato, permetta, attraverso la cultura dei dati la creazione, non solo l’estrazione, di valore.
Nessuna strategia di digitalizzazione che si arresti alle esteriorità e che lasci al proprio destino di assolvimento e di penalizzazione le amministrazioni pubbliche potrà sortire gli effetti desiderati.
Questo è quanto indicano le tendenze in atto in tutti i Paesi Europei e che mostra inequivocabilmente la Road Map dello EU BIM Task Group.
Angelo Luigi Camillo Ciribini (Milano, 1965), è professore ordinario di Produzione Edilizia presso l’Università degli Studi di Brescia, associato presso l’ITC del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Past President di ISTeA, Deputy Member nello Steering Committee dello EU BIM Task Group, Deputy Chairman dello Educational Committee dello European Council on Computing in Construction (EC3), Membro del Project National MINnD, Membro di sottocommissioni di UNI, CEN, ISO, Membro della Faculty del PREM Lab presso la SDA Bocconi, Membro del Consiglio Direttivo della SMAE e di eLux Lab della Università degli Studi di Brescia, di AICQ Costruzioni, del CTE, ideatore e responsabile scientifico di DIGITAL&BIM ITALIA, Membro di Bauen Digitale Schweiz, Membro del BIM Cluster Ruhr-Rhein di Planen Bauen 4.0.
È autore e co-autore di numerose monografie sul Programme e sul Project Management nei Lavori Pubblici, nonché membro del Consiglio Direttivo del Centro Interateneo costituito tra Politecnico di Milano, Università degli Studi di Brescia e Università degli Studi di Milano Centre for Construction Law and Management (CCLM).