Il modo in cui si sta introducendo, nel nostro Paese, il Bim e il Gis nei concorsi (internazionali) di progettazione è rivelatore, da parte della committenza (non solo) pubblica, di una difficoltà che, oltre a essere operativa, è concettuale.
Si assiste spesso, infatti, a una prima fase, a uno o a due stadi, in cui i candidati sono chiamati, pur in presenza di documenti di indirizzo preliminari dettagliati, contenenti numerosi dati di ingresso, a formulare le proprie ipotesi di natura progettuale in maniera del tutto tradizionale.
A valle di questa espressione, una volta individuato l’affidatario dei servizi di progettazione, si propone a esso un capitolato informativo.
Questo approccio, anzitutto, fa sì che i contenuti relativi alle aspettative e alle richieste di committenza siano manifestati in modo analogico e narrativo, difficilmente valutabili e verificabili nelle risposte, in primo luogo di ricaduta funzionale ed economico-finanziaria: tipici, in questo senso, i requisiti legati alla sostenibilità, alla flessibilità e alla manutenibilità.
Manca, di conseguenza, qualsiasi intento, sul versante della Domanda Pubblica, di articolare e di richiedere modelli e strutture di dati in vista della gestione del procedimento e del bene futuro, partendo dalla analisi iniziale della fattibilità.
Ciò sta a significare che i partecipanti ai concorsi di progettazione ricorreranno agli armamentari e alle retoriche tradizionali, impedendo qualsiasi azione comparativa che abbia un fondamento numerico, basato su dati numerici strutturati.
Una volta aggiudicati i concorsi, perduta ogni possibilità di dialettica digitale sulle idee originarie, sulla morfogenesi del progetto, si cerca di istradare elementi analogici secondo percorsi digitali che poco con essi avrebbero a che vedere.
D’altra parte, questo metodo impedisce che l’ambiente di condivisione dei dati sia all’origine del procedimento e, addirittura, in taluni casi si prevede che ve ne siano addirittura due, uno per parte in causa.
Ora, è chiaro che la conseguenza di questo innesto forzato stia in una modesta capacità del committente di esprimere appieno le proprie richieste, che nei documenti di indirizzo preliminare rimangono affatto narrative, dando sfogo a scelte del tutto arbitrario da parte delle commissioni giudicatrici rispetto al ciclo di vita dell’opera commissionanda.
In quest’ottica, la strutturazione dei consueti livelli di progettazione, interamente basati sui documenti anziché sui dati, funge da elemento ulteriormente negativo
Si evince, inoltre, soprattutto, che la carenza di dialogo digitale sin dalle prime fasi della concezione del progetto veda la committenza, anche in presenza di descrizioni analitiche, scarsamente attiva in termini meta-progettuali.
Tale modus operandi sfocia, infatti, nella produzione di capitolati informativi frutto di una rigorosa emulazione, acritica e generica, di riferimenti normativi, ideati originariamente per non essere copiati in maniera pedissequa.
Il fatto di non aver redatto precocemente e sinergicamente capitolato informativo e documento di indirizzo preliminare vanifica il processo di istruttoria contemplato nelle norme UNI EN ISO 19650 -1 nonché -2, che vedevano il capitolato informativo posto a evidenza pubblica nella procedura competitiva come frutto di un complesso e articolato processo coinvolgente gli aspetti organizzativi, fruitivi, patrimoniali.
Per questa ragione, il capitolato informativo e l’ambiente di condivisione dei dati, giunti a valle dei concorsi di progettazione, perdono gran parte della loro rilevanza, denotando una certa passività di una funzione committente che questa formula di selezione dei servizi professionali, al contrario, presupporrebbe in senso opposto.
I concorsi di progettazione, in effetti, diventato così uno sforzo in parte autoreferenziale dei progettisti, dei gruppi di progettazione, in lizza, con una committenza che, dopo aver, appunto descrittivamente sollecitato i filoni tematici con una certa genericità, cerca di agire di rimessa.
Non può essere, tuttavia, esso un approccio accettabile per una Domanda Pubblica che, attraverso la digitalizzazione, si proponga di esercitare un ruolo decisivo nella centralità della progettazione.
Naturalmente, non ci si immagina una modalità meccanicistica di ottenimento di conformità nelle soluzioni progettuali che, con un linguaggio leggibile dalla macchina, oggettivizzi ogni intento, bensì la possibilità di dar vita a una dialettica inedita bidirezionale.
Se i concorsi di progettazione sono intesi dalle rappresentanze come il miglior modo per scegliere il progetto più appropriato, a prescindere dalle referenze premesse degli studi professionali, è palese che la nozione di creatività tipica dell’epoca digitale richieda attitudini molto diverse a committenti e a progettisti.
Ai primi è, infatti, domandata una forte progettualità sulle attività che saranno oggetto di fruizione attraverso i cespiti e una grande consapevolezza delle esigenze manutentive e gestionali degli stessi, mentre ai secondi si chiede una maggiore responsabilizzazione sulla gestione dei servizi di progettazione nei confronti della realizzazione, della manutenzione e dell’esercizio dell’opera, a partire dalle prime ipotesi formulate nel concorso.
Non può sfuggire che la gestione autenticamente digitalizzata di un concorso di progettazione richiami le questioni identitarie dei profili committenti e progettuali, che si riflette sullo statuto degli operatori e sulla relativa allocazione di responsabilità.
Occorre, quindi, formare una classe di committenti e di progettisti che non ritenga di operare digitalmente solo perché, all’interno di una piattaforma digitale, menziona tardivamente il Bim.
L’approccio superfetativo e sovrastrutturale ai processi digitalizzati oggi adottato rivela, peraltro, un più antico difetto in materia di Design Management.