Angelo Ciribini conclude le riflessioni sollecitate dalla Conferenza Internazionale di Digital&BIM Italia, sulla mutazione del costruito da analogico a digitale.
Se dovessi dire che cosa stia davvero mutando tra l’analogico e il digitale direi ciò che alcuni comprendono e che molti si ostinano pervicacemente a ignorare: che, cioè, non sia il processo, il metodo e neppure lo strumento a cambiare, ma l’oggetto e il soggetto del mercato.
Qualunque sia la definizione di «Bim», un argomento sempre meno influente allorché una parte, circoscritta, sta ormai a indicare un tutto, dilatato, oltre a tutto anche dimensionalmente (dal piano tecnico a quello organizzativo e a quello giuridico; dalla scala edilizia a quella urbana e a quella territoriale), ciò che noto con sempre maggiore frequenza è la volontà ferrea di insistere sull’aspetto «tangibile» dei cespiti.
Poco importa che la cosa investa maggiormente i risvolti geometrico-dimensionali anziché quelli alfa-numerici.
Non ci si deve stupire, mi si dirà: il settore non può che occuparsi, dal tecnigrafo al Bim, dei beni fisici che posseggono una matericità e una morfologia, per quanto «aumentati» da virtualità e da sensoristica.
Il «computer», dunque, non sarebbe che il dispositivo «stupido» asservito alla volontà dell’ideatore, la «domotica» non sarebbe nulla più che una meccanizzazione sofisticata.
Si tratta di una visione che, ovviamente, alimenta il suo contrario: l’«automazione» delle attività, l’«intelligenza» del cespite.
Le molte facce del Bim, le sue «ennesime dimensioni» tendono, perciò, a esaurire lo spettro delle possibilità, in un caleidoscopio che riflette di tutto e di più: dai droni alle stampanti additive, dagli esoscheletri ai robot, e così via, secondo una progressione inarrestabile di intelligenza artificiale e simili.
D’altra parte, i «requisiti informativi» non sono altro che richieste che riguardano la produzione dei modelli informativi e gli «ambienti di condivisione dei dati» non sono altro che sistemi di distribuzione di contenitori informativi che molto assomigliano ai «documenti».
Alcuni di noi, io per primo, peraltro, potremmo essere annoverati tra i «teorici», altri potrebbero essere classificati come gli «smanettoni»: tutti, però, considerati utili alla causa dell’efficientamento «informatico» di un approccio profondamente «analogico».
In fondo, ciò che si chiede a questa «inevitabile» digitalizzazione è proprio di scongiurare la fuoriuscita da identità e da modelli consolidati e riconosciuti.
Sarà, al contrario, questa ambizione ossimorica o, almeno, aporetica?
Nella realtà, a mio modo di vedere, vi sono due elementi che tendono a sovvertire questa concezione «informatizzata» della questione: il «dato» e lo «spazio», o per meglio dire, il dato nello spazio.
La spazialità, di per se stessa, è, certo, sempre stata al centro del pensiero dei progettisti, segnatamente degli architetti, così come l’uomo, oggi ridenominato «utente»: la centralità del progetto è, infatti, assolutamente, e prima di tutto, umanistica e letteraria, oltre che formale.
Spazialità, esistenza umana e progettualità sembrano, d’altronde, essere avvalorate da tutto ciò che chiamiamo, ciclo di vita, circolarità, decarbonizzazione, resilienza, sostenibilità, e quant’altro.
Il lato «Green» del «Bim» parrebbe, allora, chiudere ideologicamente il cerchio.
Eppure, proprio il dato e lo spazio ci interrogano in modo differente, a partire da una «rappresentazione» che è sempre più «simulazione», da una «autorialità» che è sempre più «collettivismo», da «modellazione» che è sempre più «modellistica»: fenomeni che qualcuno potrebbe agevolmente interpretare come il trionfo delle razionalità ingegneristiche sulle eccezionalità architettoniche o come la supremazia di un produttivismo anonimo sulla inventiva individuale.
In realtà, che cosa è davvero il dato, completamente strutturato o meno, del tutto relazionabile o no, di cui parliamo? E in quale luogo si muove? Di conseguenza, chi è l’utente a cui rivolgiamo la nostra attenzione: l’abitante che non deve compromettere le strategie di efficientamento energetico, l’occupante che non deve perire nel collasso strutturale, il lavoratore che non deve sprecare lo spazio operativo?
Quello che a mio parere sta accadendo è che si stanno infrangendo le barriere tra i sistemi di dati, cosicché, in primo luogo, quelli che servono a profilare l’individuo siano connessi a quelli che ne tracciano il posizionamento o che ne riconoscono lo stato d’animo, nonché a quelli che gli permettano di interagire con i beni immobiliari e infrastrutturali: localizzare l’identità del fruitore e il suo comportamento?
Abbattere queste barriere tra ecosistemi, materiali e immateriali, fisici e digitali, comporta davvero una innovazione radicale, poiché l’uomo, «datificabile», occupa uno spazio, altrettanto «datificato»: quanto sia ambito della autonomia o della sorveglianza è tutto da verificare, l’importante è che risulti «predittivo».
Questo spazio, diversamente antropizzato, che potremmo denominare come «ambiente costruito» (laddove per «costruzione» dovremmo intendere ben di più dell’atto meramente edificatorio di edifici, reti e infrastrutture, ma anche intenzione condizionante i sentimenti degli individui), sollecita con forza l’identità degli attori e la natura del loro operare.
Il punto è che, in questa «mediazione» tra attori del «tangibile», come tutti gli operatori della costruzione e dell’immobiliare, e attori dell’«intangibile», quali gli operatori delle piattaforme tecnologiche, delle reti digitali sociali, eccetera, si sta creando un luogo, uno spazio, ibrido di cui stentiamo a capire il senso, il cui «valore» non possiede per noi ancora una metrica statica (come per il metro quadrato di ufficio o per il chilometro di galleria), ma che, confusamente, cerchiamo evolutivamente di misurare come «servizio», come «esperienza», addirittura come «esistenza».
Questo spazio che stiamo costruendo non possiede, per il momento connotati precisi, ha una notevole instabilità, è, temporaneamente difficilmente vendibile, ma è presente nelle sensazioni e nelle impressioni di un numero crescente di attori del mercato.
Certo, esso non è percepito distintamente da committenti, professionisti e imprenditori del comparto né lo è, se non per temi conchiusi, come i servizi sulla rete o gli assistenti vocali, dalle società tecnologiche.
È un luogo incerto in cui potenzialmente si fronteggiano intelligenze centralizzate e intelligenze distribuite, viscosità del «mondo reale» e fluidità dei «mezzi sociali».
In futuro, tuttavia, in quel luogo e in quello spazio, si prospetterà la «persona», ovverosia il «cittadino»: come soggetto oppure come oggetto?
È evidente che quel «prodotto» immobiliare o infrastrutturale investirà la «politica» e la «democrazia».